ROCCO ABATE

 

 

IL COMPOSITORE?

MANDIAMOGLI UN AVVISO

DI GARANZIA.

 

parlare di tecnica vuol dire aprire le porte a tutti i cretini

………… j ‘aime mieux parler d ‘inspiration.

(Bruno Barilli Capricci di vegliardo e taccuini inediti, Einaudi pag. 113)

 

 

 

 

 

Questa affermazione è riferita al “ lavoro del compositore “ e non lascia dubbi su cosa intenda chi la scrive. Vi sarebbe però, da sottolineare almeno un’incongruenza nell’uso antitetico di due termini come tecnica e ispirazione, che dovrebbero, quando l’equilibrio ideale si realizza, costituire le due facce della stessa medaglia.

Sarebbe, forse, più corretto dire: “parlare di tecnica non animata da ispirazione vuol dire rilasciare patenti artistiche anche ai cretini”, intendendo dire che i cretini possono non essere ispirati, ma dotati di apparato tecnico­strumentale tale da consentir loro di addivenire ad esiti compositivi vicini per somiglianza all’opera d’arte. A sostegno di questa interpretazione va aggiunta un’ulteriore considerazione e cioè che l’ispirazione da sola non si materializza in nient’altro che in un anelito negato se non è sostenuta dalla tecnica, mentre quest’ultima, da sola, anche in assenza di ispirazione appunto, compie la sua opera mistificatoria. Mi soffermerò, ancora nell’analisi di questa “boutade” di Barilli poiché, sia pure in presenza delle evidenti semplificazioni che essa rivela, è lo spunto che ho raccolto per la mia riflessione. Continuando, dunque, occorre chiarire il significato dei tre termini: tecnica, cretini e ispirazione che io, mutuandoli liberamente dall’assunto di Barilli, sto usando in modo strumentale. Se nessun dubbio è possibile avanzare sul significato di tecnica, trovo, invece, che il termine “cretini”, prima che essere ingiurioso sia inesatto, poiché al “cretino” non è dato neppure di sapere cosa stia facendo realmente mentre compie una data azione.

Se ne ricava, allora, che il cretino che malauguratamente si fosse dedicato alla composizione, se lo è al punto da non rendersi conto da sé che sarebbe meglio pentirsi, di assecondare e incoraggiare detto pentimento, per l’interes­se generale e il supremo amore della musica, dovrebbe farsene carico l’organismo che, ignaro o miopemente interessato, lo sostiene (quest’organi­smo, come si sa è multiforme e la sua azione si sviluppa, organicamente, mediante soggetti che vanno dall’Editore al Direttore artistico al Programma­tore, dal Critico Musicologo a quant’altri). Ma, siamo sicuri che, già nell’ac­cezione di BariIli, non di cretini si tratti, ma di persone indubbiamente intelligenti, tanto da essere, come vedremo, talvolta persino sofisticate nelle loro meditazioni.

Ma allora perché cretini? forse perché non ispirati appunto: alla mancanza d’ispirazione fanno corrispondere un solido e convincente apparato teoretico (cretini “attivi” come l’ignoranza “attiva” di brechtiano conio) sostenuto pervicacemente, fino a rendersi ridicoli, e dunque cretini, agli occhi dei pochi spiriti acuti (Barilli era uno di questi. I più, gli spiriti rimanenti, come si sa, si dividono in confusi e contenti dai barbagli di tanta, illuminata conoscenza; in annoiati per non aver capito niente; e in indifferenti per non essere stati investiti da qualsivoglia energia).1

Ma torniamo ai compositori intelligenti che un altro personaggio emblematico di questo secolo, che rispondeva al nome di Jean Cocteau, definiva, in modo sprezzante, compositori da lavagna, a causa del carattere professorale che rivestiva la loro attività - così scientifica e così poco umana -  per dire, a questo punto della riflessione, che forse l’intelligenza non fa il compositore.

Mi permetto, ora, un’ultima citazione che credo utile a definire, in qualche maniera e mi auguro, senza ingenerare equivoci, l’ultimo dei tre termini indagati e cioè : ispirazione.

La leggo in uno studio monografico di Renzo Cresti sull’opera di Niccolò Castiglioni, apparso di recente in libreria : “Freud soleva dire che gli artisti sanno una quantità di cose tra cielo e terra che il nostro sapere neppure sospetta”. Il nostro sapere.

 

 

 

1 D’altra parte, in un’epoca in cui abbiamo perso il senso dei sapori e degli odori, confusi come siamo, appiattiti e omologati (come avrebbe detto Pasolini) dai sapori e dagli odori che l’industria multinazionale ha deciso per noi, perché proprio l’udito, aggredito anch’esso da rumori - anche questi uguali per tutti - dovrebbe reagire in modo speciale rispetto agli altri sensi ed essere così capace, anche in assenza di segnali decisi e inequivocabili, di discernere tra “buono” e “cattivo”?

 

Dunque, il sapere di Freud, eminenza intellettuale, genio assoluto fra geni. Ma di quale intelligenza è dunque dotato l’artista per saperne più di Freud e per saperne tra cielo e terra, a mezz’aria, in quel luogo di nessuno, in ciò che sono le pieghe della conoscenza?

Si tratta forse di un’intelligenza speciale e che, proprio perché tale, è forse, più esatto definire “intuito”, capacità di intuizione?

Ha tutto ciò qualcosa a che fare con l’ispirazione ? A mio parere sì: ispirazione ha, in sé, la parola spirito : sostanza incorporea (chiamiamola sensibilità o energia, se lo preferiamo) che anima in modo speciale chi la possiede.  ispirazione ( spirito dentro o dentro lo spirito) o intuizione che, con la comune radice IN (dentro) sta per vedere dentro, sono dunque entrambe sostanza incorporea che si proietta al di qua, al di là o obliquamente, non importa dove, ma altrove rispetto alla soglia della conoscibilità e quindi dell’intelligibilità.

Va sottolineato che Freud dice : “sanno una quantità di cose” e non “conoscono una quantità di cose”. Questo spiega che alla conoscenza si perviene con la ragione e quindi con 1’intelligenza, mentre la verità la si sa per intuizione o ispirazione appunto, come il dogma della fede sancisce. E, come è evidente, questi strumenti sofisticati come l’intuizione e l’ispirazione sono rari e talvolta indisponibili sul mercato della comune conoscenza.

E’ legittimo domandarsi come effettivamente l’ispirazione si presenti, ma la domanda non ha risposta poiché la forma che essa assume non è descrivibile a priori, ma è riconoscibile (sempre unica, sempre diversa, sempre originale) nell’ “attimo fuggente” in cui si realizza l’incantesimo del suo manifestarsi. Quello che si può dire è che quando, qua e là, la individuiamo è impossibile confonderla con qualcos’altro poiché essa, come la bellezza , è fatta di equilibri delicati, di proporzioni che non si misurano, ma appunto si intuiscono . Dove, se un’ intelligenza organizzativa, un ordito razionale, vi fossero (e nel caso della composizione c’è da giurarci su tali esistenze ) sono così celati, così sotterranei da negarsi all’evidenza. Personalmente, sono da sempre convinto che non v’ê libertà senza legge, come, d’altra parte, la legge, essa sola, non garantisce la libertà.

Ho spesso pensato che la crisi nel rapporto tra la musica del nostro tempo e il pubblico (e fra il pubblico individuo principalmente ampie fasce di intellettuali e di artisti di altre discipline) fosse causata dalle astrusità di questo linguaggio, per come esso si è venuto configurando nei suoi passaggi storici della più nobile tradizione.2

 

2 E’ evidente che alcuni linguaggi musicali del nostro secolo hanno, in un certo senso, pagato e pagano, più o meno volontariamente, il prezzo della “difficoltà comunicativa” per la caduta dei riferimenti formali, per la rinuncia all’uso di codici di dominio comune che invece sostanziavano la musica tonale e della tradizione.

 

 

Non è così : il pubblico - alle soglie del terzo millennio, dopo un secolo di sperimentalismi e concettualismi che non sempre hanno portato acqua al fiume della storia, “rotto” a tutte le esperienze -, ha imparato a riconoscere anche gli “oggetti formanti” della nuova musica e non è di certo scoraggiato dall’inaccessibilità presunta del percorsi suggeriti dagli artisti, ma più sempli­cemente, annichilito dall’assenza, pressoché totale, di “suggerimenti”. Que­sta musica è l’amata che si nega all’amante, non per tradimento, ma, più banalmente, per virtuale inconsistenza.

Il pubblico è pronto, è ricettivo, lo è sempre stato in presenza di espressioni autentiche e di testimonianze (esistenziali) vere in cui l’artista si “spenda” totalmente in un gioco estremo quanto sublime, ogni qualvolta si propone agli altri. E’ indifferente la scelta del veicolo, come indifferente è il fatto che lo stesso sia costituito da un lessico riconosciuto: il flusso di energie, se attivato, corre sicuro sui canali più diversi e imprevedibili.

Sia chiaro : non di incantesimi si auspica l’apparizione ma di opere dell’ingegno in cui ogni fibra, ogni tessuto, ogni cellula, concorra alla definizione di una forma, che di questi, è 1’inverata testimonianza, e la forma emersa, nella sua finitezza, allo stesso tempo, ne custodisca, sotterranee, le ineluttabili (quanto segrete) presenze.

Le dissertazioni teoriche, le fini analisi sul come, le complesse articolazioni per una simulazione credibile di improbabili fenomeni atmosferici : movi­mento di nuvole, forza dei venti, posizione della luna, moti ascensionali delle maree ecc. ecc., nulla hanno mai chiarito sul cosa - poiché il cosa, come il miracolo, si manifesta, ma non si spiega. - Ai mezzi, altro non è dato che la loro condizione e, quando usurpano il fine, rivelano soltanto l’inane frutto di un “interessante” quanto sterile esercizio calligrafico.

Molto frequentemente queste posizioni sterilmente intellettualistiche, equi­voche e fuorvianti, hanno potuto diffondersi negli ambienti musicali, con conseguenze di inimmaginabile negatività, per l’opera di disinformazione e di disorientamento che ne deriva, con il concorso colpevole anche di alcuni “soggetti esperti” che, quando non sono artisti (almeno un po’) nell’accezione freudiana - dunque intuitivi - niente li cattura se non l’intelligenza.

Sopravvivono, in buona sostanza, atteggiamenti avanguardistici che, para­dossalmente, proprio perché mummificati in un cieco e sordo manierismo, asseriscono ciò che vorrebbero negare.

L’avanguardia, come si sa, è una sorta di febbre di crescenza. E’ un ciclico processo catartico che, in alcuni momenti della storia delle arti, quando le acque ristagnano e troppo a lungo, nasce, si sviluppa e prende vigore, e come una furia si abbatte sugli attardati accademismi portando scompiglio, rime­scolando le carte di un gioco ingessato da regole straniate e distruggendo consolidate quanto mortifere certezze. L’avanguardia è dunque un “salutare” stato febbrile che è tanto più benefico quanto più è rapido nel suo apparire, agire e dileguarsi. E’ preoccupante dunque constatare come, per una forma di inerzia intellettuale - creativa, venga (e non solo in Italia) artatamente tenuta in vita o, nell’ipotesi più ottimistica, venerata e compianta come la cara estinguenda.3

Già quindici anni fa Armando Gentilucci, con la lucidità che gli era propria, invitava, parzialmente ascoltato, al molteplice, ritenendo ineludibile il superamento dell’avanguardia. Oggi, dalla mia umilissima condizione, con­siderato che l’invito non è stato pienamente raccolto, mi permetto di suggerire, per accelerarne il decesso, il ricorso anche all’eutanasia e aprire così, finalmente, un nuovo capitolo. Se l’avanguardia è stata una febbre anti virus che, qua e là, si è pericolosamente trasformata in malattia cronica, il cosiddetto neoromanticismo,4 è stato ed è un autentico neoplasma sul corpo della musica; esso non è dunque l’auspicato “ nuovo capitolo “, ma un frutto malato, nato dall’albero della tradizione severa, un equivoco pretesto emerso dalle ceneri di uno strutturalismo ipertrofico e agonizzante : la classica risposta sbagliata ad un problema reale. Alle grossolane semplificazioni, alle appropriazioni indebite, alle rapine di stili e modi di grandi autori del passato, che di certo non hanno bisogno di replicanti, vivi come sono nella coscienza di chi se ne interessa, va aggiunta, tra i capi d’accusa a carico di questo “movimento”, la presunzione : i compositori neoromantici, sostengono di conoscere i gusti del pubblico e di usare la loro creatività per assecondarli. Gli effetti grotteschi di tanta filosofia non si sono fatti attendere.

Vanno dall’irriguardosità travestita da rispetto delle aspettative del pubbli­co, ad una inevitabile disinformazione circa le reali prerogative della musica “colta” di oggi; dalla falsità della testimonianza5 al tentativo di irretire con prodotti edulcorati e di second’ordine.

 

 

3 Se si pensa che da quando John Cage si è” fiondato “a Darmstadt a turbare i sonni tranquilli dei serialisti - fondamentalisti come Pousseur, Stockhausen e Boulez, sono passati quarant’anni, il ritardo è davvero grave.

 

4 Mai tanto impropriamente fu denominata una corrente artistica che meglio sarebbe chiamare neobanalismo dal quale nessuna epoca è mai riuscita a immunizzarsi.

 

5 Com’è possibile che le attese del pubblico rispecchino le necessità interiori dell’artista se, peraltro, per testimonianza intendiamo rivelazione dell’essenza? ben altro è il messaggio: esso si serve di un codice purché sia e non abbisogna di coscienza.

 

La frattura, dunque, tra pubblico e artista, se c’era c’ê ancora tutta, con gran dispetto anche per i “neoromantici “ i quali han creduto che qualche suono addomesticato, un po’ di ripetitività minimalista e qualche consonanza debitamente distribuita (ma cosa c’entra tutto questo col romanticismo ?) potessero ricucirla.

E’ evidente che le libere scelte di chiunque meritano ogni rispetto, ma è altrettanto lecito dedurre che se ai compositori intelligenti tocca guadagnare l’ispirazione, a quelli neobanali, di un gradino più sotto, tocca fare propria prima l’intelligenza ( ingegneria compositiva per intenderci ) e poi, s’è possibile,  l’ispirazione. Fuor d’ironia, direi che quando si libera la magica forza dell’ineffabile (è forse tempo di riparlare anche di quel misterioso oggetto che è la musicalità), anche il neoromanticismo, fatta salva l’antistoricità dell’operazione, s’impone all’attenzione.

Sono perciò più che mai convinto che la soluzione del problema non stia nella scelta e nell’uso di vocaboli più o meno idonei, ma nella realizzazione di una fitta rete di relazioni, di cause e necessità, di equilibri, di proporzioni e contestualità che fanno di una lingua - da qualsivoglia mondo essa provenga - una testimonianza unica, vitale, umana e di “verità” assoluta. Verso Ia fine del secolo scorso Nietzsche diceva : “Nuove orecchie per una nuova musica”. Oggi, alla fine del nostro secolo, con un po’ di malinconia, ci tocca dire:  “Nuova musica, dunque, per orecchie che ci sono già, sia pure bombardate dai rumori”.

 

La mia rinnovata forza trova alimento nella presa d’atto dell’ impotenza che mi genera.

 

 

 

 

*Contributo alle giornate di studio su Il lavoro del Compositore (rassegna di concerti e dibattiti ideata da Luigi Pestalozza con la collaborazione del Teatro alla Scala, della Radio Svizzera di Lugano, della Fonit Cetra, della Ricordi e della Sezione di Musica Con­temporanea della Civica Scuola di Milano), in Musi­ca presente, Milano aprile 1993.

 

 

 

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