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LA MORTE DEL COMPOSITORE
E’ morto, all’età di 75 anni, lo chef e cronista del New York
Times, Pierre Farney. Ne dà la notizia, nella rubrica “Se ne sono andati”,
Diario, inserto settimanale de “L’Unità”, oggi - fine ottobre - alla sua
seconda uscita. Niccolò Castiglioni, compositore milanese, classe 1932, è
morto, improvvisamente e in solitudine - rinvenuto nel suo appartamento solo
quattro giorni dopo - il 6 settembre scorso.
Diario, che non era ancora nato, non ha potuto, quindi, informare la
Nazione che con lui abbiamo perso uno dei più originali musicisti di
quest’ultimo cinquantennio. L’ hanno fatto, in compenso, su pagine
rigorosamente locali, tre quotidiani, per iniziativa, supponiamo, dei
rispettivi firmatari, amici, che di Castiglioni, in tutti questi anni, hanno
seguito il percorso virtuoso, apprezzato la sua posizione est/etica (collocata
a vertiginose distanze - a ridisegnar CONFINI appunto - dalle ossute elaborazioni
teoriche di un’avanguardia talvolta ottusa, come dalle semplificazioni
banalizzanti di certi movimenti “neo”, inevitabili tentazioni e manifestazioni
senili di un secolo che muore).
La grande stampa, dunque, nella sua ufficialità, ha taciuto l’evento, e
con essa - niuna meraviglia - la Radio e la Televisione, occupate come sono a
imbesuire
- le eccezioni rimangon tali - con ogni inimmaginabile “amenità”
spettacolare il pubblico televisivo adorante.
Per nulla divorate dall’obbligo, non già morale, ma storico di
informare che quell’uomo, oggi silenzioso per sempre, era interamente dedito a
fabbricare precisi e pregiati congegni sonori, architetture di segni e di
timbri da consegnare (non per sua consapevolezza, ma per nostra considerazione)
al patrimonio musicale universale. Che quel musicista, apprezzato in tutto il
mondo, è vissuto per quattro anni negli Usa, ivi chiamato a insegnare in tre
Università. Che Mario Bortolotto, raffinato quanto selettivo studioso, già
negli anni sessanta, gli dedicò un intero capitolo in un ponderoso volume
(condiviso con pochi grandi: Berio, Nono, Donatoni), insuperato a tutt’oggi per
ampiezza e qualità dell’analisi condotta.
Che nel 1958, il compositore/pianista, a Darmstadt, si era imposto
all’attenzione dei padri storici: Pierre Boulez, Henri Pousseur, Karlheinz
Stockhausen, con una breve quanto fulminante pagina pianistica, e che, nello
stesso contesto, respirò traendone conseguenze decisive, la lezione di
quell’autentico ciclone iconoclasta che rispondeva al nome di John Cage.
Di questo protagonista del 900 parleremo ancora. Ma ora ci spostiamo
obliquamente rispetto alla sua vicenda umana e artistica, ne abbandoniamo la
trattazione cronistorica che assumiamo, invece, come metafora della condizione
del compositore di oggi. Ce ne dà lo spunto Rubens Tedeschi (autore di una
delle tre belle testimonianze citate), il cui articolo porta un occhiello, non
sappiamo quanto involontario, che suona emblematico se non sinistro: La
morte del compositore.
Se escludiamo, com’è giusto, una definizione tautologica dell’essere
compositore, secondo la quale egli è attento soltanto alle sue necessità
espressive, in ascolto e a ribadire sulla carta le emersioni poetiche dal
profondo, che da lui nascono e in lui muoiono dopo essere assurte al proscenio
della scrittura, dobbiamo immaginare che il compositore tragga continua
ispirazione dalla storia, ma, principalmente, dall’ascolto e dall’osservazione
del “tempo reale” che lo vede attivo. Per alcuni la musica è la massima
espressione dell’essenza spirituale della realtà.
Detto questo dovremmo dedurne che vi sia un rapporto vivifico, di continuo
scambio (occhio/osservazione/deduzione/elaborazione poetica/creazione
artistica/comunicazione) tra il compositore e la società.
In realtà, e non da poco ma principalmente in questo secolo, tra il
compositore (ma potremmo estendere il problema all’artista nella sua accezione
più ampia) e la società/fruitrice - definizione volutamente riduttiva, ma
funzionale all’angolazione visuale di analisi scelta - si è aperto uno jato di
difficile sanabilità.
Da un lato il compositore che “rinuncia” all’uso di vocaboli di una
lingua morta (quella della comunicazione comune e di massa), teso nello sforzo
di dare un “senso all’universo” e drammaticamente in lotta per emanciparsi dal
nulla e dall’assurdo esistenziale (Camus afferma: “L’uomo è la sola creatura
che si rifiuta di essere ciò che è”), dall’ altro un pubblico, anch’esso
rinunciatario, non disposto a volare e ad abbandonare la superficie piana dei
significati certi, per porsi sul piano inclinato della metafora,
all’inseguimento di quel “senso dell’universo” che non gli appartiene.
Vivi, dunque, e attivi, ma ciascuno per sé, non interagenti. Ma allora
non è come se fossero morti l’uno per l’altra e l’altra per l’uno? Se così non
fosse che significato avrebbe l’indifferenza, appena raccontata, per la
scomparsa di un compositore di quel livello? Per questa società l’artista in
stato di bisogno non accede neppure al riconoscimento dei diritti basilari -
sopravvivenza e assistenza - se non è invalido o anziano: il “vitalizio
Bacchelli” è figlio di questa “civiltà” ipocrita che per apparire caritatevole
non esita ad affamare. E dunque, sugli scaffali del Supermercatone della
società dei consumi, l’artista/compositore non ha alcun valore.
Lo acquista soltanto se si ricicla sotto forma di produttore di merce
di consumo. Il prodotto, come si sa, va confezionato sugli appetiti della
domanda, e, chi crea a comando, cade dall’empireo, per falsa testimonianza. Ma
se è la società a muovere il passo (quando questo non è di elevazione verso
l’abbraccio dei valori dell’arte, poiché per fortuna accade anche questo),
assistiamo a un tentativo estremo, per motivi di “status”, di far proprio il
fenomeno: se non si può possedere (in senso semiologico) la produzione
dell’artista/compositore, si fa in modo di trasformare in prodotto l’artista
stesso, spettacolarizzando la sua immagine e trasformando in evento il suo
esserci. Ecco allora che si allestiscono grandi mostre, si organizzano
kermesse e premi letterari e festivals monografici con Stockhausen a Palermo e
Boulez a Milano, e finalmente, corroborate dal business, anche la grande
stampa, la radio e la televisione partecipano alla festa. Solo allora le sale
da concerto sono stracolme... Ma il pubblico non è là per la musica: in quelle
occasioni, accade raramente, - anche la musica muore, ammazzata dalla
sordità... quella delle pance (di una società vorace) che tutto consumano e
tutto digeriscono, ma niente trasformano in una nuova linfa vitale. Ma tutto
torna all’artista : l’ape trasforma in miele anche quando attinge a fiori
amari.
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